Robbie Robertson, valeva la pena attendere 13 anni…
Quanti anni sono trascorsi dall’ultimo disco di Robbie Robertson? Tantissimi. L’accoppiata di dischi dedicati alla rilettura (a dire il vero molto particolare) delle sue radici pellerosse raccolta in Contact from the Underworld of Redboy e Music for The Native Americans, è di metà anni Novanta, mentre i due stupendi Robertson (1987) e Storyville (1991) hanno ormai più di ventanni.Queste date ci offrono il senso dell’attesa con cui alcuni irriducibili (mi ci metto – ovviamente- pure io) hanno accolto l’arrivo di How To Become Clairvoyant, disco di uno dei più grandi musicisti della storia del rock.
Robbie, una delle menti della Band (quella di The Last Waltz), a lungo a fianco del Dylan elettrico di Blonde on blonde, autore di canzoni immortali (The weight) e musicista di sensibilità rarissima, negli ultimi anni se n’è rimasto in disparte dal rock ridotto a non-protagonista della Mtv-generation; certo il canadese ha lavorato come produttore alle colonne sonore di Shutter island e di The departed, entrambi di Scorsese, ma ritrovarselo finalmente nel contesto di un disco intero è cosa ben diversa, più emozionante, come ritrovare un vecchio amico e vivere la bella tensione delle tante cose che potrebbe (si spera) aver da raccontare.
Grandissima attesa e risultato – precisiamo subito – superlativo: nel disco c’è tutta la classe compositiva, l’ispirazione umana, le scelte tecniche di un primo della classe, di uno dei pochi che hanno davvero lasciato un segno duraturo. Robertson, che per questo lavoro ha voluto la compagnia di Eric Clapton e Steve Winwood, del sacred steel guitarist Robert Randolph e di Trent Reznor (anima e corpo dei Nine Inch Nails), ha inciso undici titoli figli dell’intensità della Band e dei suoi temi migliori, evitando qualsiasi caduta nel trito-ritrito ed utilizzando piacevolmente brandelli di quelle ricerche elettro-acustiche che (in compagnia di DeVries e Howie B) aveva già sperimentato negli ultimi anni. Ne è saltato fuori un disco di canzone d’autore venata di rock e di americana (ma solo in parti giuste, senza troppo folk…). L’apertura del lavoro è affidata a Straight Down The Line, una bella ballata rock attraversata da un chitarre efficaci (che suggeriscono da lontano il refrain di Amazing grace) e da un bel coro in nostalgico stile west coast. Come spesso accade nell’universo di Robertson (era anche il suo tema in American roulette), la canzone d’apertura è una storia di salvezza e perdizione, di redenzione in una chiesa gospel, dove il coro intona “ io non suono rock’n’roll, non voglio essere obbligato a vendere la mia anima, i demoni restano fuori stanotte, scuotetevi voi peccatori, scuotetevi voi peccatori”. Il primo brano termina e già Robertson ha chiarito che è tornato per fare grande musica. Chiarimento che prosegue con When The Night Was Young, un pezzo suadente e semplice, di quelli che hanno il dono magico del giro melodico che affascina; anche qui – come nel passato – si gira attorno a un tema già visto, “quando la notte era giovane, avevamo sogni, eravamo convinti, quando la notte era giovane, di poter cambiare il mondo e fermare la guerra, non si era mai vistro nulla del genere prima, era proprio così quando la notte era giovane”.
Robertson canta sempre con quella sua voce roca e sfiatata che – anche se non certo bella – risuona sempre così personale e matura, un’ugola soffiante che in He Don’t Live Here No More si eleva perfetta su un terreno ritmico intenso e su belle chitarre ispaniche fascinose; chitarre che diventano potentemente elettriche in This Is Where I Get Off, uno dei pezzi migliori del disco, brano che parte light and soft, ma rivela subito la sua intensità e che sfocia in un memorabile duetto tra Robbie e Clapton.
Ed eccoci ad uno dei punti di forza del disco: la presenza di Eric non si riduce infatti a qualche comparsata solista, non è per nulla un fronzolo, anzi. I due firmano insieme due ballads acusticheggianti, Won’t Be Back e soprattutto la stupenda Fear of Falling, una perla folk-rock con l’hammond di Stevie Winwood dietro le quinte; e come se non bastasse slowhand contribuisce con uno dei brani più belli del disco, la strumentale Madame X, un titolo da 10 e lode, roba da palati finissimi.
Certo sono un tifoso strenuo di Robertson, ma questo disco anche al giudizio più distaccato e critico emerge come denso e ricchissimo, dal funky-rock di Axman, alla lentissima ed atmosferica She’s Not Mine. Uno può avvicinarsi alla pensione musicale strapazzato di vizi o esaurito dai troppi dischi, svuotato. Il canadese, sessantotto anni, per fortuna sua si è contenuto in tutti i sensi. Ha sempre accompagnato la vita artistica ad una sensibilità umana molto particolare. Era un ricercatore di cose vere a vent’anni e lo è rimasto ancora oggi. Un certo senso di umana profondità che si intuisce anche nel titolo di questo disco (“come divenire chiaroveggente”) e che nella canzone omonima, tesa e umorale, piena di sincopati ed effetti minimali, si lascia andare al sussurro che tutti, probabilmente, si tengono addosso, “in questi strani tempi, tu vorresti sapere, cosa il domani ci porterà, vorrei sapere come diventare chiaroveggente, ed essere uno di quelli che vede oltre gli angoli, dimmi dove devo firmare, e indicami dove andare, ora ci servirebbe una rivelazione…”
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