Quel “giovane” di Vecchioni che canta l’amore, e che chiede all’Amore
Lo sapevo che a San Remo avrebbe vinto Vecchioni. Me lo sentivo. La sua canzone “Chiamami ancora amore”, mi ha subito colpito.
L’avevo anticipato alle conduttrici di Radio Fermo Uno, e lo avevo accennato anche ai miei di casa.
Quando sabato notte la giuria lo ha incoronato, ho pensato a… Gaber.
Ha vinto Vecchioni e la mia mente è andata al Signor G, che per una volta non c’aveva acchiappato quando cantava “La mia generazione ha perso”. Perché non è vero, perché la generazione sua e quella di Vecchioni, ma in qualche modo anche la mia, non ha perduto. Non ha perduto se è capace di dire – e ti attendere – quel che ha detto – e atteso – dal palco dell’Ariston. E, dicendolo – e attendendolo – per sé, lo ha detto e atteso per tutti. Generazione, generazioni ancora capaci di domanda, di chiedere qualcosa. Di chiedere amore, di chiedere all’Amore.
Il trionfo di Vecchioni, sabato scorso, lo ha dimostrato. E non tanto con i voti dei giurati, ma con i commenti entusiasti dei giovani e degli adulti. Ha dimostrato che stiamo tutti aspettando che qualcuno ci ridica una verità immutabile: “noi siamo amore”, che qualcuno riaccenda un fuoco di passione, un desiderio d’infinito. E se qualcuno lo fa, e Vecchioni a suo modo l’ha fatto, la sua generazione – nonostante le pazzie compiute – non ha perduto, non è stata l’anello debole che ha ceduto.
Vecchioni è tornato a cantare l’amore, quello che non sfrutta, che non è possesso o appropriazione, o banalizzazione. Ha cantato quell’amore che valorizza, accoglie, abbraccia l’altro, che è pronto al sacrificio per l’altro.
Il poeta-cantante rammenta il deserto in cui vivono i giovani (“per chi ha vent’anni e se ne sta a morire in un deserto come in un porcile”), un deserto dove le passioni sono sfiorite ed è impossibile che fioriscano di nuovo, dove i sogni e i desideri si sono avvizziti (“perché stanno uccidendo il pensiero”), perché gli ideali sono svaniti, perché soprattutto, abbiamo nascosto, seppellito, cercato di disintegrare il cuore e quanto esso contiene (“per il vigliacco che nasconde il cuore”), e perché abbiamo gettato al vento la nostra memoria.
Eppure, eppure dinanzi all’odierno gelo, dinanzi a farfalle che non sanno più volare, l’amore scioglie i ghiacci che hanno serrato gli ideali, riconsegna ali nuove per librarsi. L’amore è voce di madre e sorriso di Dio che non c’abbandona “in questo sputo d’universo”.
C’è qualcosa di molto più profondo inciso nell’animo degli uomini, inciso in questa nostra umanità. “Perché noi siamo amore”.
Non perde allora una generazione capace, come dimostra Vecchioni, di continuare un racconto che gli proviene da decine e centinaia di generazioni precedenti. E non perdono le generazioni odierne se accolgono entusiaste questo messaggio.
Vecchioni non scrive e non dice cose “vecchie”, come gli era parso in Luci a San Siro.
Scrive invece e dice di una cosa antica e modernissima: l’amore scuote, l’amore nutre, l’Amore – quello con la lettera grande, che in qualche modo il cantante, forse inconsapevole, invoca – muove il mondo, e ti prende in mano, e si fa mio, tuo, nostro compagno. “Perché noi siamo amore”.