I miei amici ci ridevano su quando raccontavo di aver incontrato una fata. Le mie amiche mostravano invece quel po’ di gelosia che inorgoglisce. “Ma come le fate….?”, domandavano con un misto di superiorità, stupore, curiosità, e un pizzico di sgomento.
Eppure, una fata c’era stata. C’era stata…
Lo sapete: io amo la montagna. Senza i miei Sibillini mi sento perduto. Senza la vista della Corona non potrei vivere. Senza i miei guerrieri ghibellini che vita sarebbe? Scherzo, è ovvio, ma neppure troppo.
Dunque, dicevamo: la mia fata la incontrai a Smerillo. Era una di quelle sere che non stavo bene in alcun luogo. Tv? obbrobriosa; scrivere? che palle!; amici? troppo casalinghi, ultimamente. Io, solo; io, auto. E via per Servigliano, molino di Santa Vittoria, passo di Monte San Martino.
Ecco, il bivio. Smerillo, si Smerillo, per guardare il profilo della montagna, e sognare. Ok, salgo, non troppo veloce, le curve si susseguono. Intorno, quel silenzio incredibile che ci fa dire: questo è un altro mondo in questo mondo. Bene!
I Sibillini sono alla mia destra, e hanno ancora una striatura di rosso. In paese, nessuno. Salgo per la Rocca, mi affaccio dal balcone e mi perdo tra un tremolio di luci e l’enorme oscurità.
“Salute!”. La voce arriva da dietro, è femminile. Ed è incantevole, anzi: incantata. Di solito: “Salute” è il mio… saluto, da sempre, fin da bambino. Mi fa effetto ascoltarlo da altri… Altri? Ragazzi, che roba? Mi volto: una donna alta quasi quanto me, esile, bellissima. Che mani! Sempre colpito dalle mani… “Salute”, replico con un qualche impaccio di troppo. Il sorriso che ho dinanzi è di quelli che ti denudano l’anima e il cuore. Puoi indossare mille corazze, e mille saranno trapassate.
Anni? Indefinibili. Comunque, giovanile, non ragazza, donna… donna piena.
“Che fai?”. La domanda mi spiazza, tanto è diretta e senza ingombri. Un po’ balbetto, un po’ cerco di ripigliarmi, che poi si fa peggio. Fortuna che è notte: sento un rossore che avvampa dal volto in giù. I suoi occhi sono nei miei. Indagatori e complici.
Mi viene incontro, si appoggia alla balaustra, accanto a me. Meno di un passo. Il vestito è nero come la notte. Ha un profumo travolgente. Resta muta e mi guarda che guardo la Sibilla.
“Lo so che ti piace”. “Come fai saperlo?”. “Lo so e basta”. Non è perentoria ma autorevole. Vorrei stropicciarmi gli occhi per …capire meglio. “Si, mi piace la montagna e mi piacciono le sue leggende”.
“Sono una di quelle”. Giro il volto, quasi istupidito. “Sono una di quelle leggende”, ripete, quasi sottovoce. Mentre lo dice mi tocca la spalla destra, come volesse rendere carne un fantasma. “Sei …una fata?”. “Sono una fata”. La sua bocca è già sulla mia, la sento ansimare, le mie mani sono dappertutto. Il suo corpo vibra, si inarca, si tende all’indietro, eppoi si rilascia. “Orgasmo?”. Orgasmo.
E’ una corsa. L’auto è poco più sotto. Scivoliamo due volte prima di raggiungerla. Mentre ci muoviamo con frenesia avverto un rumore un po’ sordo, come di noci che cozzano tra loro. Siamo in macchina, scendiamo rapidi verso San Ruffino. Lo spiazzo dinanzi all’eremo è buio, grande. E accogliente. Ricomincia: la sua bocca sulla mia; le mie mani sul suo corpo. Dal piccolo seno in giù, indugiando, esplorando, trovando, scoprendo. Facciamo l’amore, uno due tre volte. Esausti, ci appoggiamo ai sedili.
“Che scomoda la tua auto”, mi rimprovera sorridendo. Già: che scomoda. E ho toccato l’infinito. E se fosse stata comoda?
Ed ora? Mi chiede di ricondurla a Smerillo, nei pressi della Rocca. Prima di scendere indugia con un altro bacio, poi se ne va silenziosa. Solo quel rumore di noci sbattute… E’ la notte di lunedì. Notte senza sonno, passata a rimuginare.
Torno il martedì. La ritrovo identica, nell’identico luogo, con le identiche intenzioni. Riappare anche il mercoledì e quello dopo ancora. Il venerdì, no. Non c’è. La cerco, giro la collina, scendo e salgo da Comunanza a Santa Vittoria a Montefalcone a Smerillo. Non c’è. Neppure conosco il suo nome, la sua casa. Impazzisco: l’ho persa! Il sabato è di nuovo al suo posto e così anche la settimana successiva. Ma il venerdì, no. Nessuna traccia, inutile averglielo chiesto. Intanto quel rumore sordo mi torna alle orecchie sempre più spesso. Del suo corpo conosco tutto, ormai. Insaziabilmente tutto. O quasi. La terza settimana sono deciso a capire. Nessuna risposta alle mie domande. E’ l’unico attimo in cui imbroncia.
Il giovedì voglio lasciarla il più tardi possibile. Di solito i nostri incontri terminano intorno all’una. Il giovedì, ci faccio caso, è diverso. Già alle 23 chiede di tornare. Stavolta sono molto guardingo. La lascio che manca poco alla mezzanotte. Scende dall’auto, mi saluta come sempre. Eccolo: il suono delle noci.
Anch’io stavolta scendo non visto dall’auto. La seguo. Ha un’andatura strana, quasi a scatti. Superata la curva inizia a correre velocissima, un fulmine. Le tengo dietro sempre più difficilmente. E il rumore delle noci si fa forte, fortissimo. Sembra una specie di galoppo, sembra legno che batta sull’asfalto, sulle pietre. Ma non sono zoccoli, non ha zoccoli ai piedi, sono proprio i piedi, piedi di…capra, di caprone. Non di donna…
Corre verso la montagna, verso l’antro, rapida, animalesca. Non è più lei. E’ vecchia, è piena di rughe, è arcigna. E’ qualcosa d’altro……..
Gli ultimi matusalemme della montagna raccontano come nell’antro della Sibilla ogni venerdì le donne si trasformassero in serpenti e, da serpenti, svolgessero orge, succhiando sangue, mangiando carne umana. Per rigenerarsi, e ammaliare, il giorno dopo, e dividere, e sconvolgere. E far soffrire.
“Ma non era una fata, allora”, commenta Serena.
“All’inizio, una fata, più tardi una s…”.
Vorrei dire “strega”, ma non ce la faccio. E la mia amica nuova sorride. Le guardo i piedi. È scalza, è stata al mare. Li ha abbronzati, i piedi. E mentre si muove le noci sono lontane. Fuori stagione. Non sbattono più.