La neve di questi giorni… la cena di stasera…
Riaffiorano ricordi, figure e volti dimenticati, immagini che il tempo vorrebbe sfocare.
Ho ripensato al mio paese, Montegiorgio, e alle due scalinate che conducono alla piazza.
Al fondo di quella grande, c’era il negozio di Gilda. Vendeva giornali, libri e articoli da regalo e per la scuola. Aveva un distributore di palline, fuori, sul piano del gradino d’ingresso. Palline di plastica con al centro l’immagine piatta di un ciclista famoso. Il nostro gruppo di amici, che più tardi sarebbe diventata una banda con tanto di giuramento, tatuaggi e prova di coraggio, sostava sempre dinanzi a quell’entrata: 20 lire una pallina, 10 una confezione di figurine con le squadre di calcio e i campioni che ancora non erano i vip oggi alla moda.
Usavamo le figurine per i giochi sopra le logge: “testa o croce”, “sotto o sopra”.
Accanto a Gilda c’era un genere alimentari. Il proprietario, Vincenzo, buon clarinettista, era il padre di uno dei miei più cari amici, Salvino.
A volte, per conto del genitore, trasportava pacchi di zucchero e noi l’aiutavamo volentieri. Un po’ meno per le pesanti casse di baccalà. Ricordo che il merluzzo nordico veniva confinato nell’ampio sgabuzzino, un locale buio, dietro al bancone. Umidità modesta, fortissimo invece l’odore del baccalà che si mischiava a quello delle enormi forme di parmigiano i cui frammenti, una volta avviate per farne piccoli tocchi da vendere o da grattugiare, erano il nostro premio.
In verità, stazionavamo tra Gilda e Vincenzo anche per altro. Per Morena, di cui non vi rivelerò se il nome sia inventato o meno, una ragazza prosperosa, bella, molto più grande di noi. Le scrutavamo le gambe mentre saliva le scale per recarsi a scuola. Accadeva lo stesso per Eugenia – anche su di lei manterrò l’enigma – che s’affacciava sfrontatamente al terrazzino del Palazzo Passari, a quel tempo Istituto Magistrale. Non ho mai capito se si sporgesse tanto solo per ottenere che i nostri nasi… fossero all’insù.
C’era poi la scalinata minore, quella stretta tra le case. Fatto l’ultimo gradino in basso, ci si trovava a fianco di un esercizio alimentare e di un altro di calzature. Entrambi della stessa proprietaria. Donna particolare. D’inverno, indossava una mantellina di lana nera a rete. Ma quanto freddo poteva impedire? Boh!
Il baccalà era in fondo al negozio, in un ampio catino di metallo grigio, di quelli usati nelle nostre case a quel tempo per il bagno dei bambini. Ne ho una foto che lo testimonia.
Gli stoccafissi invece erano appesi a grappolo, come tante trecce enormi di peperoncino allungato, l’uno sull’altro, legati con lo spago alla porzione di muro che divideva le scarpe dai barattoli di conserva.
Quella donna, in fondo un pezzo di pane anche se pronta agli strilli ogni momento, era il nostro bersaglio preferito. Ci acquattavamo accanto al Palazzo del vescovo Petrelli, lungo le scale che portano a “la Cota”, il quartiere dei bottai e dei ferrai. Ci armavamo di esili tubi di ferro, a mò di cerbottana, con siluri dalla punta rinforzata di spilli e… fuoco a volontà. Sette, otto, dieci missili colpivano l’obiettivo riempiendo gli stocchi di proiettili. Bombardato il merluzzo, via a gambe levate verso il nostro rifugio, nei pressi dell’ “ammazzatora”, come chiamavamo il mattatoio comunale. Ci lasciavamo alle spalle, su, in piazza, le urla della proprietaria, rossa in volto e scapigliata non poco. L’erudito avrebbe commentato: hanno colpito il Finnmark, i Vichinghi si vendicheranno.
Il Finnmark, lo seppi tanti anni dopo, era il merluzzo-stoccafisso pescato in Norvegia a primavera, diverso dal Lofoten, il merluzzo-baccalà catturato d’inverno.
Già, l’inverno.
Un giorno di nevicate forti e di neve alta, come è accaduto anche nell’inverno 2005, costruimmo un igloo davanti al portone di casa mia. C’erano tutti i ragazzini del quartiere. Il più affaccendato era Ivo, quello che ripeteva sempre: “Da grande abiterò un castello.” Ed ora che “grande” lo è, ed affermato pure, il castello se l’è costruito sul serio.
L’igloo, dicevamo, era enorme, ci sarebbe entrata una persona in piedi. Temevamo però che non potesse reggere più di tanto. Così, per collaudarlo, attendevamo un adulto. Toccò a mio padre. Tornava dal Comune, intabarrato e infreddolito. Lo vedemmo venir giù dalla strada del “Pino”, cercando di seguire orme già presenti; lo pregammo, lo costringemmo ad entrare nel nostro manufatto. E per poco non lo seppellimmo vivo. Lo ricacciammo che sembrava un pupazzo di neve. Me la svignai a casa, frettolosamente.
Ci ritrovammo dentro, dinanzi alla grande stufa di terracotta rossa, gelati entrambi, lui più di me, le mani e i volti paonazzi. Non disse nulla: appendemmo calzini, maglie e mutande sullo stendino in ferro attaccato al tubo della stufa, guardando il ghiaccio sciogliersi e venir giù lento.
Poi, mia madre dalla cucina che dava sul giardino completamente ammantato di bianco, da quella stanza con il camino eternamente acceso, da quel vano dove a gennaio, con le gelate, si faceva il mistrà fuori legge e la “salata” del maiale a cui partecipavo come spettatore appiccicando il naso al rombo di vetro della porta, ci chiamò tutti. Ci volle tutti a tavola, marito, figli e amici dei figli. In tanti. Come ad una festa popolare.
C’era il baccalà fumante, che costava poco; c’erano le patate, che costavano ancor meno; c’era fuori la neve, che costava nulla.
C’era una grande famiglia. Che si voleva bene.