Lettera di risposta di Giuseppe D’Amore al direttore del settimanale “SETTE” allegato del “Corriere della Sera”.
Indagine sulla nascita di un sigaro “made in Italy”
Dalla crioconservazione al bagno di sale. E poi, il malcostume di dire “questo Paese” anzichè “il nostro Paese”.
Sono l’autore del libro “Oltre il fumo – viaggio nel mondo del tabacco per sigari” (Marlin Editore, 2011) e ho vissuto in prima persona tutte le innovazioni e trasformazioni introdotte dai Privati, dalla fine del Monopolio di Stato nel settore della fabbricazione di tutti i prodotti da fumo.
Visto l’articolo storico sui sigari di Enrico Mannucci apparso sulla Rivista “SETTE” N° 24 del 13 – 06 – 2014 (supplemento del Corriere Della Sera) a pagina 62, intitolato: “Quando mandare in fumo 90 milioni di pezzi è un affare”, appare alquanto riduttivo e fuorviante tralasciare la totale delocalizzazione dell’approntamento della fascia sotto forma di bobine di tela, introdotta dall’ETI (Ente Tabacchi Italiani) e sostenuta dagli attuali privati, nella lontana regione asiatica dello Sri – Lanka, un paese senza nessuna vocazione tabacchicola e con penuria di acqua.
Queste formelle di tabacco, sagomate da una fustellatrice e bobinate (5.000 ogni bobina), devono alimentare le macchine confezionatrici per fasciare i nostri sigari toscani “a macchina” di un turno, prodotti nelle due Manifatture di Lucca e Cava. Questa nuova strategia non solo non è prevista dal nostro disciplinare tradizionale ma è tutt’ora effettuata nel paese extracomunitario nonostante la filiera dei sigari sia stata acquisita nel 2006 dalla SECI (una Holding italiana del Gruppo Maccaferri), che è subentrata alla BAT (British American Tobacco). La lunga giacenza delle bobine nei containers ha dovuto prevedere dei trattamenti aggiuntivi, cioè uno di crioconservazione a –10 °C ed un bagno di sale, detto “Burn additive”, in modo da ripristinare la combustibilità del tabacco persa con il congelamento e con il successivo scongelamento all’atto dell’impiego in macchina. Lo scongelamento, altresì, comporta una perdita di essudati a cui potrebbe seguire un appiattimento del gusto, visto che il peso di una fascia incide sull’intero sigaro toscano tra il 32 ed il 40 % del totale, e non del 13,5 % ipotizzato (nel sigaro cubano è del 10%). Inoltre si sottolinea che nell’anno 2012 è stata trasformata nello Sri-Lanka una quantità di fascia (italiana + nord americana) corrispondente a fabbricare 177 milioni di sigari “a macchina” su di un totale di 180 milioni (di cui solo 3 milioni sono stati fatti “a mano” a Lucca).
In definitiva il mio intervento è solo finalizzato a dare una giusta luce al nostro “made in Italy” che non dovrebbe essere confuso con il marketing pubblicitario molto in voga per i nuovi sigari, in particolare per quelli commemorativi. Si precisa, infine, che l’ex Monopolio di Stato aveva predisposto la trasformazione della fascia in bobine in loco, cioè a monte delle confezionatrici dei sigari.
Sperando di essere stato esaustivo nella stesura e senza nessuna nota polemica, Le porgo sentiti e cordiali saluti.
Giuseppe D’Amore
Cava de’ Tirreni, 16 – 07 – 2014.