Oggi andremo a parlare di un prodotto “contadino” e tipico del Centro Italia, nello specifico la zona sud delle Marche (le cosiddette Marche Sporche, che si estendono dal fiume Potenza al fiume Tronto) e la provincia teramana.
Parleremo del Vino Cotto o Vì’Cotto.
Primi esempi di produzione di vino cotto si hanno in epoca romana con il Caroenum (antico nome del vino cotto). Era favorito come vino anche perché reggeva meglio il trasporto da una regione all’altra. Parla anche di vino cotto Apicio. Andando avanti con i secoli, tale Sante Lancerio, bottigliere – che bellissimo lavoro n.d.r. – di Papa Paolo III, menziona il vino cotto per la sua grande bontà e lo eleva alla dignità del rito sacrificale nella Santa Messa.
Arrivando ai giorni nostri Guido Piovene, nel suo “Viaggio in Italia” ci parla del vino cotto di Ascoli Piceno “ Specie da queste parti perdura nelle case una specialità marchigiana, il “vino cotto”, fatto per uso familiare, raramente in commercio. È un vino forte, ottenuto bollendo il mosto ed ha un sapore d’uva passita”.
Veronelli, il creatore della famosa guida sui vini, nel 1974 parla di questa prodotto povero, ma di pregevole fattura e ammonisce chi abbandona l’idea del vino per farlo diventare una mera ricetta.
Dopo questo excursus storico letterario, andiamo a vedere il lato tecnico del vino cotto.
Viene prodotto con le uve locali delle terre picene (Sangiovese, Malvasia, Trebbiano, Montepulciano, Pecorino, Maceratino ecc…).
Si produce mettendo il mosto di queste uve in caldaie di rame, chiamate callare in dialetto, su fuoco diretto fino a farne evaporare un terzo o metà dell’acqua e aggiungendo, facoltativamente, come aromatizzante delle mele cotogne, una ogni quintale di uva.
Finito di bollire, e scesa l’acqua, si prende il vino cotto e lo si versa in una botte e la si tura con un pampino e un mattone e lì deve rimanere per più di 18 mesi.
A fermentazione avvenuta, il vino viene travasato nella botte dove già è presente il vino cotto vecchio.
All’esame visivo un vino cotto giovane si presente rosso scuro, torbido e si ha un illimpidimento naturale dai 18 mesi in poi, fino ad arrivare ad un rosso rubino con venature dorate.
Al naso, si hanno sentori di frutta rossa e di bosco e note dolci, ma è in bocca che da il meglio di se: alcolico, con un corpo importante, frutta rossa come ciliegia o visciola, note di caramello e lievemente affumicato, moderatamente dolce.
Può essere servito come vino da pasto, se non è troppo vecchio, o da dolce dai 18 mesi in su. Può essere usato in cucina per fare dolci o per rosolare la carne (provate a sfumare le costolette cotte in padella con il vino cotto invece del vino bianco e mi dite se non sono una meraviglia) e viene usato nella norcineria per la produzione del Ciauscolo e delle salsiccie.
Il vino cotto è subdolo però, ti avvolge con il suo calore d’inverno e ti rincuora dal freddo e d’estate, se consumato fresco, ti fa girare la testa, e ne chiedi un altro, ed un altro ancora fino a che, ebbro di felicità e di alcool, percorri le strette vie di Loro Piceno o di Lapedona e ti siedi rimirando le colline marchigiane, formose come una donna, le accarezzi con lo sguardo e ti abbandoni a loro lascivo.
Cesero:
– Guarda ‘mbò Cisira, porbio adesso me so’ ccortu che ogghj a Loro adè la festa de lo vì cotto
Cisira
– Lo sapìo, Cesero e te prego non fa li guasti, non fa comme anno che assemo a Andò tu te ‘mbriacasti.
Cesero
– T’hai rrajo, Cisira mia, e tte chèdo perdono, ma lo vì cotto de Loro adè sembre tando vono!
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