Quella fiammante 1100
La tromba è lì, nel soggiorno di casa mia, senza più custodia, appoggiata ad un piano della libreria, tra i volumi che si affiancano e si sovrappongono. E’ diventata un gingillo, una specie di soprammobile.
A volte la riprendo in mano. Faccio scorrere i cilindri. Sono lenti, non scattano più come si deve. Il meccanismo ha bisogno d’olio. Anche la doratura se ne sta andando. A volte riprovo anche a suonare. Qualche nota, qualche scala… Ci vorrebbe riprendere l’esercizio, riallenare il labbro.
Ci vorrebbe un po’ di tempo.
Ci vorrebbe un perché.
Sul tavolo della scrivania qualcuno dei miei ha lasciato un volume fotografico. L’ho aperto. Ogni volta mi sembra nuovo. C’è una scritta iniziale. Dice: “Quanto più andiamo avanti negli anni e nella discendenza, tanto più abbiamo bisogno di ritrovare le origini”.
Già…le origini.
Lo sfoglio cautamente, per non increspare la carta leggera che copre le pagine. Ci sono le foto di quattro generazioni. Ma ce n’è una che mi attrae più delle altre. Ogni volta mi capita allo stesso modo. E’ una foto probabilmente d’inizio estate. Il lungomare è quello di Porto san Giorgio con ancora l’antica balaustra di pietra grigia. Si vedono i casotti in legno bianchi a strisce celesti. Mio padre sembra indossare la tuta dei piloti con tanto di cappellino rosso, ha i sandali ai piedi ed è appoggiato alla nostra nuovissima auto. Io e mia madre siamo dentro, affacciati appena al finestrino del conducente. Avrò avuto si e no cinque anni.
La mitica 1100 Fiat R. Auto incredibile: rosso vinaccio i tre quarti, oro incupito il tetto e i montanti, gomme dalla circonferenza bianca candida. Una figata per quegli anni. Era stata sicuramente acquistata da poco. Mi sembra che, appena ritirata, mio padre iniziò a “scioglierla” con un viaggio sino al confine con l’Austria.
Faceva scena, la nostra 1100. E fu anche la mia prima auto, la mia prima alcova, il mezzo per fuggire e per sognare. Ora che la rivedo, scattano le immagini di tante storie e d’alcuni volti. Storie d’adolescenti, e quindi belle perché ormai mitiche. E di volti, sempre belli, perché associati alle prime cotte, ai giochi proibiti, all’ingresso in nuove dimensioni.
Era anche l’auto della musica. Non solo perché aveva una radio innovativa fatta di pulsanti lunghi mezzo dito, ma anche perché è lì che caricavamo gli strumenti del nostro gruppo musicale. Ci ha accompagnato per alcuni anni nei nostri concerti che si facevano sempre più importanti. Poi di 1100 ne arrivò un altro, il modello D, uno grigio scuro senza più contachilometri rotondo, bensì rettangolare. Però la funzione di trasportare i nostri strumenti rimase. Le esibizioni si moltiplicarono. Prima fummo I Conti, poi Le Macchie nere. Si girava per teatri, d’autunno e d’inverno; per piazze in festa e per spazi verdi, d’estate. Si suonava Aretha Franklin e Roby Roberts, I Chicago e i Beatles, i Pooh e i Dik Dik, Gianni Morandi e I Nomadi.
Più tardi vennero anche due cantanti…
A Montefortino, alla festa della Cucciola – era un buon settembre, rammento – capitò qualcosa, che ancora ricordo con piacere. E mi sorprendo oggi a pensare perché non continuò…
Giorni fa uscendo dal Municipio di Montegiorgio, ho incontrato Vincenzo. Era il nostro sassofonista. Di pregio. Mi ha detto che a maggio 2011 torneremo a suonare. Ha già sentito gli altri. Capelli bianchi sul palco del teatro Domenico Alaleona. Ho passato un buon pomeriggio. Ho ripreso la tromba, ho scartabellato nell’armadio, ho ritrovato le musiche: 30-60-90; Il Contadino. Vuole riproporle il mio amico. Ho ripreso in mano la tromba, l’ho spolverata, ho ritrovato l’imboccatura di un tempo. Ho provato. E’ solo questione di un piccolo esercizio. Poi ci siamo. Ed è quel che spero.
E tornano in mente tutte le vecchie immagini. E anche Montefortino…