Bob Marley, il fascino inatteso
30 anni fa – l’11 maggio 1981 – Bob Marley si spegneva in un ospedale di Miami. Aveva 36 anni ed era una delle più fulgide, inattese ed amate stelle della musica mondiale.Con lui il reggae, musica spuria della piccola Giamaica, incrocio di ska e rocksteady, aveva conquistato il mondo. Nato da una coppia mista (il padre era un bianco inglese, la madre una diciottenne dell’isola), Marley inizia la sua scalata con Catch a fire, l’album con i Wailers nel quale sono comprese Concrete Jungle, Stir it Up e No More Trouble: e’ il ’73 e al suo fianco c’è Peter Tosh, mentre sulla cover dell’album Bob si sta fumando un joint molto esplicativo. Per la prima volta con questo disco Marley arriva in Europa, si esibisce per una settimana intera allo Speakeasy di Londra, poi infila dieci date tra Boston e New York. Prima della fine dell’anno, con l’uscita di Burnin’, ritorna in California, poi ancora in Inghilterra, con concerti intensissimi.
Prima ancora che con i dischi, Marley convince il pubblico con la forza ipnotica dei suoi shows, in un tempo in cui esplode un altro animale da palcoscenico, l’italo-irlandese Bruce Springsteen. Ma il reggae è sensuale e ripetitivo, danzabile e liberatorio molto più del rock o del funky ed è la porta d’ingresso per un mondo nuovo e sconosciuto: i giovani di mezzo pianeta lo accolgono, lo applaudono, lo incoronano. Tra marjiuana e richiami religiosi a Jahvé, Marley invita ad “alzarsi per i propri diritti”, senza troppi debiti alle mode, con l’innocente libertà di chi arriva da un angolo di terzo mondo, affascinando per il suo richiamo alla purezza naturale: come potergli resistere? Entusiasmante sulla scena ed insolito in tutto, Bob era cresciuto cattolico, poi era divenuto un aderente al culto rastafari (dalle parti di Kingston era ed è diffusissimo e si nutre di ritorno ai valori della natura e di cannabis) e, sulla fine dei suoi giorni, un devoto della chiesa ortodossa etiope. Il suo credo era un misto sincretico di Bibbia e di devozione al negus etiope Hailé Selassié, considerato ultimo dei profeti divini.
Cose c’era di così unico in canzoni come No Woman No Cry e Redemption Song? La purezza di un suono ancestrale, la vibrazione di una melodia che assapora di origini e di umanità? Forse si, ma soprattutto era l’assoluta novità di un ritmo strano (la chitarra del reggae suona sulla seconda e sulla quarta battuta), la percezione di ascoltare qualcosa di finalmente diverso. Negli anni Cinquanta c’erano stati il rock’n’roll, il jazz e il blues, poi il soul, il beat, Woodstock e il rock, ma la voglia di assaporare autentiche novità era nell’aria. Ecco cosa è stato e cosa ha rappresentato Marley: l’insolitamente diverso, il sorprendentemente inatteso. Certo il reggae è rimasto anche dopo quel maggio 1981, ma inutile dire che Alpha Blondy o Ziggy Marley (uno degli undici figli di Bob), gli Aswad o Burning Spear non hanno nemmeno un centesimo della qualità e del carisma di Marley, capace nella sua stupefacente umanità anche di accreditare – per ottenergli una rendita – il suo più grande successo, No Woman No Cry, a Vincent Ford, sconosciuto non-musicista, uno de tanti cuochi di strada giamaicani, che tanto aiutò il giovanissmo Marley durante i suoi primi mesi di vita randagia a Trenchtown.
Ma come raccontare quegli anni a chi è venuto dopo? Lo dirò con un ricordo personale: i primi dischi che ho sentito di Marley sono stati Burnin’ e Live, quando più o meno avevo sedici anni. Poi nel 1980, il 27 giugno, ero a San Siro per il suo concerto milanese: ero tra i tanti che avevano scavalcato i cancelli per andare a ballare sui popolari (allora c’era solo il secondo anello) al ritmo di Get Up Stand Up e Jamming. Non lo dimenticherò mai: San Siro ballava. Bastava rimanere fermi per sentire i popolari muoversi, ondeggiare sotto i piedi. Chi c’era non lo dimenticherà mai. Per questo credo che avrò sempre profonda stima e umano affetto verso questo musicista giamaicano che così tanto ha dato e in modo imprevedibile al mondo della musica.
Walter Gatti